La tragiche Pulizie della nostra Vita

Programmare lo svuotamento e l’ordine in un magazzino per poterci far stare nuove cose sembra un concetto banale che tutti noi almeno una volta all’anno realizziamo, ma non è banale invece applicare lo stesso concetto nei confronti della vita che esegue esattamente la stessa operazione nei nostri confronti.

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A dirlo sembra cosa ovvia ma quando accade, secondo che tasti va a premere, o potremmo dire secondo quali scatoloni decide di eliminare, la sofferenza che proviamo ci strugge in un dramma insopportabile.

Bhè certo, non è mica la stessa cosa rimuovere quelle logore chincaglierie della nonna, stipate nel terzo ripiano dello scaffale, paragonate al/alla nostro/a partner che tanto amiamo il/la quale ha deciso di andarsene con un’altra/o.

Potremmo dire che la vita a volte sembra non avere pietà. Crudele, meschina, tragica. Elimina davvero da noi le cose alle quali teniamo di più: persone amate, lavoro, case… con la stessa facilità con la quale noi eliminiamo vecchie cianfrusaglie e spesso nei modi più bislacchi ma, ahimè, duri da sopportare.

Questo accade perché la vita, o meglio la grandissima energia universale nella quale viviamo, alla quale apparteniamo e che ha potere su di noi, non ha i nostri stessi sentimenti. Non è edulcorata dai nostri stessi bisogni, non prova assolutamente le nostre stesse sensazioni.

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A lei interessa fare spazio per ripristinare, per riordinare, per aggiungere e, quando aggiunge, aggiunge sempre qualcosa di meglio, di più grande, di più ottimale per noi. È semplice: l’energia cosmica è nostra madre dalla quale proveniamo e il suo scopo non è farci del male.

Bisognerebbe da parte nostra riuscire a focalizzarsi sul “bello” che sta per arrivare ma questo appare come una condizione assurda.

Di questo “bello” non conosciamo neppure l’esistenza, non ne abbiamo nemmeno un indizio, non ne percepiamo il sentore, siamo completamente avviluppati in un dolore straziante e il nostro unico scopo ora è uscirne vivi. Lo so. Lo so bene.

E’ impossibile riuscire ad immaginare un “bello” quando non abbiamo nemmeno più una lacrima dentro di noi. Quando il petto sembra schiacciato da un enorme masso e lo stomaco stritolato in una morsa che lo attanaglia priva di compassione. Come possiamo immaginare il “bello” quando la nostra vita sta andando a rotoli, è completamente da ricostruire, ci ritroviamo senza soldi, senza affetti, senza dimora o senza un mestiere? La vita ha deciso di colpire così perché “vive nel suo mondo” ma nel nostro di mondo dobbiamo rispondere ad una società e, in questa società, se non hai determinati requisiti muori.

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Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere il giorno dopo – (J. Morrison)

Perché in realtà il sole è destinato a risorgere sempre ed anche in noi. Se glielo permettiamo. Non esiste dramma tanto grande da non poter permettere alla felicità di entrare nel nostro essere. E’ così. E finchè questo sembrerà impossibile non accadrà mai.

Finchè si continua a rimanere appesi alla nostra disgrazia non si intraprenderanno mai nuovi cammini.

Conoscete tutti immagino il film – Rambo – di Sylvester Stallone. Il primo, quello che negli anni ’80 ha entusiasmato un mucchio di ragazzini e anche persone di una certa età. Io avevo all’incirca otto anni la prima volta che lo vidi. Sly mi piaceva già un sacco e una volta adulta, naturalmente, sarebbe diventato mio marito. Ricordo ancora oggi le sensazioni che provai quando si buttò giù da quel dirupo infinito per salvare la propria vita in una scena che ha fatto scalpore.

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John Rambo, veterano della guerra in Vietnam, aveva due possibilità: o farsi braccare dai poliziotti e certamente morire o tuffarsi in un fiume lontano con una minima possibilità di salvarsi. Scelse ovviamente la seconda opzione. Un’opzione che appariva illogica e la morte sembrava attenderlo a braccia aperte in quel vuoto. L’assurdità contro la certezza. E visse.

Ricordo che nell’esatto momento in cui si staccò da quella parete rocciosa per lasciarsi cadere nel nulla pensai “Uh! E’ pazzo! Morirà!” e invece no.

Ma la vita non è un film, non ci sono trucchi e nemmeno un cast che recita con noi. Nessuno ci scrive le battute o ci rifà il trucco. Non ci sono palloni gonfiabili ad attutire i nostri colpi. Le botte le prendiamo per davvero e rompono le ossa. E’ tutto reale, come l’immenso dolore che si prova, che lacera.

Ma, come in un film, deve potersi svolgere una trama, bisogna arrivare ad un fine e, costi quel che costi, quel finale dev’essere il più lieto possibile. Sta a noi decidere di scriverlo così.

Però perché, se è stata la vita, se è stato il fato a ideare questo passaggio della nostra esistenza, ora siamo noi a dover creare il passaggio successivo? Perché allora non abbiamo potuto scrivere anche il momento precedente e ce lo saremmo scritti come meglio ci apparteneva senza quindi dover soffrire?

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L’essenza da comprendere di questo discorso è davvero lunga e complicata, avrei bisogno di tre articoli, perciò mi limiterò a dire che non l’avremmo mai fatto. La nostra coscienza, la nostra mente, non l’avrebbe mai scritto in quel modo, rimanendo così avvolta in una situazione che può sembrarci benefica ma che così non è. Ci accontentiamo, per paura, di quello che abbiamo senza accettare e capire che c’è molto di più. Ci rotoliamo in un fango convinti che sia salutare per noi senza renderci conto che stiamo soltanto rimanendo bloccati in una situazione di comodo a causa del timore di ciò che ci è sconosciuto. Quel lavoro che abbiamo, ancor grazie che l’abbiamo. Quel/la compagno/a che abbiamo, ancor grazie che l’abbiamo. Quella casa che sta cadendo a pezzi, ma per lo meno abbiamo un tetto sulla testa.

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Siamo convinti di non valere, di non poter meritare di più perché ci hanno insegnato a non pretendere, ci hanno inculcato al pensare sempre che al mondo ci sono bambini che muoiono di fame, ci hanno insegnato che se vuoi essere considerato/a bello/a devi avere i canoni di quelli che sono alla televisione e se vuoi essere ricco/a devi svolgere un mestiere di quelli considerati “notevoli”. Qualcuno un tempo li ha definiti tali e così è.

E’ a questo punto che interviene qualcosa di più grande di noi, per darci qualcosa di incredibilmente adatto al nostro valore inestimabile, enorme, meraviglioso, ma sovente non otteniamo nulla lo stesso perché con le unghie e con i denti vogliamo continuare a rimanere aggrappati lì, a non farcelo portare via. Per non rimanerne senza. Per un attaccamento deleterio che consideriamo invece il nostro Tutto.

Ma cos’è il Tutto? Soffermiamoci a ragionare su questa parola. Il Tutto. Che sempre confondiamo con una misera parte. Qual è questo Tutto? La vita che conduciamo? Per molti è così ma non per ognuno, non nel loro più profondo. E allora accade. Accade che qualcosa ti da ciò che meriti e tu peggiori la situazione. Certo, involontariamente. E’ la paura che fa agire così. Mica lo facciamo apposta. Questo accade perché non si ha fiducia nell’Universo, nella vita.

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Dio non assegna una croce più grande di quanto un uomo possa sopportare – questa bellissima citazione, cattolica o meno, della quale fatichiamo a comprenderne il senso, è invece alla base di ciò che viviamo durante la nostra esistenza. Anche quando appare impossibile, la vita offre esperienze che in realtà si possono vivere perché è da lì che nasceranno le migliori conseguenze. Occorre capirle, aprire gli occhi per vederle, fare questo grande immane sforzo, cercarle, e si potranno assaporare.

 

Prosi!

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Consiglio: Scrivere cosa ci ha fatto stare male

Il consiglio che vorrei darvi oggi probabilmente lo conoscete già ma io posso testimoniare che funziona davvero. E’ una tecnica che uso anche con chi mi chiede aiuto e noto che pure queste persone, eseguendola, trovano un giovamento. Si tratta di scrivere/descrivere, una situazione “brutta” che avete vissuto. d

Ci troviamo a volte a dover affrontare avvenimenti davvero spiacevoli per noi, traumatizzanti, che lasciano ferite aperte per molto, molto tempo, divenendo sovente, persino inguaribili. Questa è in realtà la parte più negativa. Il ricordo. Il ricordo che continua a vivere in noi. Durante il fattaccio, costi quel costi, siamo in grado di affrontare ciò che arriva, siamo in grado di reagire, siamo in grado di pregare per trovare la forza e ovviamente, non possiamo pensare in quel momento o in quel periodo, quanto male quella situazione sta facendo a noi stessi, nella nostra parte più viscerale. Non è un problema, la risaneremo appena riusciremo a tranquillizzarci ma come? Si crede sovente di riuscire a dimenticare. Attenzione, non è sempre così. Purtroppo, i fatti che ci scuotono particolarmente rimangono impressi in un cassettino del nostro cervello senza abbandonarci del tutto. Altre volte invece rimangono letteralmente, ben visibili, e possiamo vederli affacciarsi ogni giorno nella nostra testa. Cerchiamo di sconfiggerli sia che siano piccini, sia che siano enormi. Sono state esperienze della nostra vita che oggi non devono più esistere, non devono più continuare a farci male. Se avevano da insegnarci qualcosa, prendiamo quel qualcosa e abbandoniamo tutto il resto. Ci sforziamo con il pensiero di lasciar andare, proviamo a perdonare chi ci ha fatto questo, a  capire noi stessi, a giustificarci o a coccolarci, pur di “guarire” da quel tarlo che rosicchia ma non ce la facciamo. Dobbiamo allora quel tarlo, prenderlo e darlo a qualcun’altro travestito da foglio bianco o da schermo di pc. Scriviamo bene, per filo e per segno, con molto impegno, quel che ci è successo. Scriviamo con l’anima. Scriviamo il perchè è accaduto secondo noi, cosa abbiamo subito, cosa avremmo voluto fare, cosa abbiamo fatto e non. Chi ha partecipato insieme a noi a quella vicenda, come vorremmo vivere ora, insomma… tutto. Tutto quello che ci viene in mente ma facendo parlare il cuore. Nessuno dovrà leggerlo, per cui potrete davvero mettere nero su bianco ogni cosa. Sfogatevi in tranquillità visto che probabilmente non avete potuto farlo prima. Dovrete scrivere un libro. Ovviamente, più l’evento è stato traumatico e destabilizzante e più sarà lungo da descrivere perciò non abbiate paura di stilare un vero e proprio romanzo se dovesse servire. Nel caso decidiate di buttarlo giù tramite computer, vi consiglio di stamparlo poi e tenerlo in un angolo della vostra libreria. Una volta terminato, rilegatelo magari e catalogatelo bene come se fosse un fascicolo a sè e sistematelo dove meglio credete. Dateci anche un titolo e abbellitelo esteticamente. Quello è il vostro libro, uno dei tanti, un episodio della vostra vita. alai.it

Sono sicura che con il tempo, il ricordo di quella negatività vi abbandonerà e potrete trovare la serenità che meritate. Non è più in voi ora. Sarà solo tra quelle pagine, e siete padroni di tenerle, o buttarle, o bruciarle, come meglio credete, ma sarete voi a comandare, non più loro. Ora, sono “solo dei pezzi di carta“. Vi consiglio di aspettare almeno un anno prima di prendere la decisione di liberarvene perchè sovente ci vuole davvero molto tempo prima di dimenticare ma soprattutto perchè se riteniamo di aver compiuto degli errori che non vorremmo più ripetere, in quei fogli, rileggendoli, riusciremo sicuramente a trovare le giuste soluzioni. Riusciremo inoltre a mettere ben a fuoco cosa davvero di quell’avventura ci ha logorato e spaventato e, in principal modo, riusciremo a leggere il suo insegnamento. Un pezzo della nostra vita ora ben tangibile, palpabile, concreto. E se prima non sapevamo, nei meandri della nostra mente, dove andare a cercarlo, eccolo… sul terzo piano dello scaffale in salotto. E se prima era edulcorato o inquinato da altri mille pensieri, riuscendo a celarsi bene per non essere trovato, adesso eccolo… è lì.

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Grande come un quaderno, ben chiuso dentro ad una cartellina. Completamente inoffensivo. Completamente vostro. Non può più farvi paura. Dovete sapere, che addirittura, ci sono traumi vissuti nell’infanzia che riaffiorando nell’età adulta, mascherati da nuovi avvenimenti, possono provocarci lo stesso dolore di un tempo, trasformato talvolta anche in disturbo fisico. E’ ovviamente un episodio lontano ciò che ci ha causato quel malessere, neanche lo rammentiamo, ma è rimasto lì. Questo per farvi capire che non muoiono mai. Continuano a vivere dentro di noi e si nutrono della nostra quotidianità, saltando fuori all’improvviso, nel momento stesso in cui un minimo campanellino d’allarme trilla nel nostro inconscio mosso dalla nuova situazione simile, appena vissuta. Per simile intendo che riporta allo stesso risultato. Vi faccio un esempio: se un bambino è stato abbandonato dal padre in giovane età, vivrà la sua vita nell’ansia che anche altri possono abbandonarlo. Come l’ha fatto il padre, perchè non potrebbe ora farlo la mamma, l’amico, la fidanzata, il datore di lavoro? Non c’è differenza. Ora, è ovvio che quel bambino, divenuto uomo, non avrà più un padre che lo abbandona, questo è già avvenuto, ma gli basterà sentire una frase tipo – Mi dispiace, non posso aiutarti – per fargli rivivere l’incubo. E’ una frase normalissima ma, per lui, è un punto debole. E’ una ferita aperta. Quando una ferita è aperta, anche solo l’aria che ci passa sopra può far male. Quella frase, viene tradotta come “Non posso starti vicino, devi cavartela da solo, ti abbandono, io non sono lì con te“. Proprio come ha fatto suo padre. Lui non riconoscerà il collegamento con il padre ma, in un modo del tutto inspiegabile, inizierà a star male. Come farà a cavarsela da solo? Inizierà a provare ansia, paura, destabilizzazione, tristezza, inquietudine. Tutte emozioni che logorano, che causano danni. Il consiglio che vi ho dato, potrebbe non essere una risoluzione totale. Non m’innalzo al livello di psicologi e neuropsichiatri ma so che può aiutare. E poi, i medici di questo settore, non vi fanno forse parlare, giustamente, per buttare fuori quel che v’inquieta? Come vi ripeto, date ad altri il vostro problema. Cercate di eliminarlo da voi. E, un primo step, potrebbe proprio essere questo.

Prosit!

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