Questione di Educazione?

Ciò che tormenta gli uomini, non è la realtà ma l’idea che essi se ne fanno – (Epitteto).

Se prendessimo cinque persone, parecchio diverse tra loro per sesso, età e magari anche cultura, le mettessimo davanti a noi e, a tutte e cinque, dicessimo che ci è morto il gatto al quale eravamo tanto affezionati potremmo notare come, ognuna di esse, risponderà in modo differente. Fin qui, la situazione è chiara e anche nota. Com’è noto il fatto che apprezzeremmo sicuramente di più quella che maggiormente ci dimostra il suo dolore e il suo dispiacere entrando empaticamente nella nostra anima e dimostrando una significativa sensibilità. Il fatto è che in realtà tutte e cinque le risposte ci stanno insegnando qualcosa ma, soprattutto, nessuna delle cinque risposte è da considerare spregevole e senza senso. Ognuno replica/traduce ciò che la vita gli ha gli ha in qualche modo insegnato e ciò in cui qualcosa di noi si rispecchia.

Ricordo che quando a mio nonno raccontavo che era mancata una persona, ovviamente mia conoscente, a lui sembrava non importargliene nulla. Ci si può abituare alla morte? Penso proprio di no eppure, era come se per lui fosse così. Forse lo è anche per chi lavora in un obitorio o nel reparto di terapia intensiva, persone che hanno costruito una specie di corazza (più che umano) e, dalle quali ho sempre sentito citare, con voce più flebile, l’eccezione dedicata ai bambini. Però, cavoli… una vita non c’è più! Se n’è andata! Si è spenta! Ma, per mio nonno, non c’era questa gran differenza a confronto di tutte le persone che ha visto morire durante la guerra che ha svolto e durante la sua permanenza in un campo di prigionia tunisino che lo ha trattenuto per tre anni. Avete presente il film “Blade Runner”? – …ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare… -. Ecco. Queste erano le silenziose parole che uscivano dagli occhi vuoti di quel viso grinzoso.

Ricordo che mi arrabbiavo. Leggevo tutto ciò come cinismo. D’altronde, pochi erano i suoi baci, rare le sue coccole, aveva un modo di amare al quale non ero abituata e, tutto ciò, sottolineava maggiormente quella personalità che reputavo fredda.

Ci sono popoli, su questo pianeta, che non vivono la morte di un caro come una tragedia anzi, sono persin felici che ora lui abbia avuto la fortuna di essere chiamato dal suo Dio e andare così nel Regno dei Cieli. Ci son persone che festeggiano accanto al defunto con l’unica preoccupazione ch’egli possa fare bella figura una volta giunto nell’al di là.

……..Ci sono persone che non accetterebbero mai di sentirsi rispondere – Ti è morto il gatto? Ah. Ok. – e stop.

Una serie di sproloqui e termini volgari riempirebbero quelle teste nei confronti di quel tipo cafone, insensibile e pure ignorante. Perché non si fa. Non si risponde così. La nostra educazione ci ha sempre insegnato che, a certe notizie, bisognerebbe reagire in un certo modo eticamente parlando.

Ma allora io mi chiedo: cos’è che in realtà ci fa più soffrire? L’educazione ricevuta? La cultura? Le viscere ci si lacerano in fondo “per un modo di pensare”?

E’ la percezione in fondo, dicono alcuni saggi, che può guarirci o farci ammalare.

In Madagascar, qualche anno fa, assistetti al funerale di un giovane. Nessuno dei suoi parenti, durante la funebre cerimonia, piangeva. Cantavano, ballavano, ridevano. Avevano già forse svuotato i loro cuori la notte precedente? Non è certo da delle lacrime che si può calcolare il dolore provato ma guardate questo video, anche se inerente allo Stato del Ghana, è praticamente la medesima cosa.

Un happy african funeral praticamente. Così viene definito. Noi non salutiamo il nostro caro in questo modo, al di là della straziante angoscia che si possa provare. Conoscerete tutti le famose Prefiche, ancora oggi esistenti, in qualche borgo d’Italia. Donne vestite di nero, pagate per piangere ai funerali. I loro lamenti dovevano essere uditi durante tutta la cerimonia inculcando nell’inconscio una disperazione totale. E dovevano essere continui, incisivi.

E quindi, mentre un popolo si contorce nella tragedia, un altro esulta per il bene del caro che si è spento convinto che quell’energia buona, realmente provata, lo accompagni durante il suo ultimo viaggio. E allora mi sembra di si, mi sembra siano più felici.

Quindi torno a dire: è intrinsecamente, e in modo quasi sconosciuto, una cultura che ci fa soffrire? Il come accettiamo o non accettiamo una morte?

L’egoismo, perché così viene chiamato, che proviamo nel non poter più ne vedere, ne toccare, ne sentire quella persona? Nel non poter più quindi soddisfare un nostro bisogno?

Che tema difficile.

La morte è un tema davvero azzardato probabilmente ma, durante la nostra giornata, possono accadere mille avvenimenti piacevoli o spiacevoli che ognuno di noi prende a modo suo.

Quante volte diciamo – lui se ne frega e vive cent’anni -.

Il netto menefreghismo fa male, il diventare cinici addirittura è un’aridità per il cuore e per l’anima ma, senza essere ora estremisti e lasciando perdere appunto il discorso della morte, potrebbe essere che a volte forse esageriamo un po’, solo per educazione?

Spesso non si ha voglia e nemmeno ce ne frega niente che… alla sorella del cognato della figlia della zia abbiano rubato in casa. Ci può dispiacere ma, diciamolo, viviamo bene ugualmente, però – … aspetta và, fammi un attimo chiamare mia cugina prima che mi dimentico perché a sua cugina sono entrati i ladri in casa, le telefono altrimenti sembra che non me ne frega niente e ci rimane male…- e…, e…., e…, uff…!

Si, si, per carità, tanta gentilezza. E a quella persona farà sicuramente piacere. Ma cosa state emanando in realtà intorno a voi? Fastidio. Noia. Preoccupazione del “fammela chiamare altrimenti…”. Timore “chissà cosa penserà di me”. Giudizio.

Quando date in elemosina una moneta ad un povero seduto per strada (cit. mamy), solo perché l’hanno fatto tutti quelli davanti a voi pensate di fare una cosa buona? Valida? Pensate di non andare quindi all’inferno? Vi sbagliate. Non c’è stato cuore in quell’azione, non si è vista bontà. Non c’era amore. L’inferno ve lo siete creati nel momento stesso in cui, rossi in viso, avete contro voglia tirato fuori quel soldino dal portafogli solo per non essere giudicati.

Ma allora è una cultura che ci fa stare male? E’ il Paese? E’ il territorio?

In Broadway, la “via dei Teatri”, a Manhattan, di certo nessuno si accorgerebbe che non abbiamo dato la monetina al mendicante.

Ma basta pensare al fatto che pur non essendo mai entrati in Chiesa una sola volta nella nostra vita, quel famoso funerale ce lo facciamo poi svolgere da un prete (altrimenti chissà cosa pensa la gente).

Io soffro perché non posso farmi i capelli blu, se vivessi a Londra potrei, ma qui mi prenderebbero tutti in giro. E allora sto male perché non mi esprimo come vorrei, sto male perché invidio chi ha avuto più coraggio di me e lo ha fatto, e starei male comunque anche qualora mi ritrovassi i capelli di un bel ciano sgargiante.

Cosa fa nascere in noi queste sensazioni così negative? Il giudizio e la paura.

Il giudizio degli altri ad esempio, o la paura di rimanere “soli”. Sia perché abbiamo perso una persona che amavamo, sia perché abbiamo colorato i nostri capelli.

A pensarci bene è sconcertante.

Non se ne esce.

Capisco che forse sto facendo un mix poco comprensibile ma mi sembra che tutto tocchi un solo tasto: quello dell’ipocrisia.

E comunque mio nonno ha vissuto fino a 96 anni senza prendere una medicina se non l’ultimo anno. A 95 anni guidava la macchina, giocava a bocce, manteneva 3 terreni e faceva baldoria con gli amici. Perché è stato un menefreghista? Un onesto menefreghista forse?

Sarà. Ma oggi in cuor mio oggi so che a modo suo mi ha voluto bene e lo ricordo con affetto. Forse a lui solo questo importava, il mio ricordo, il nostro ricordo.

Alla fine mi è sempre sembrato un realista. Insomma, che a me fosse morto il gatto non gliene poteva fregar de meno ma ho visto spegnersi il suo sguardo quando a lui è mancato l’affezionatissimo cane. Ed è giusto. Persino più che ovvio. Forse inutile anche dirlo.

Quello sul quale voglio riflettere è proprio l’ipocrisia che, a mio parere, un po’ come l’odio, fa più male a chi la porta che non a chi la riceve. Il nascondersi dietro ad una finzione è deleterio. Perciò penso sia più corretta la sincerità che il perbenismo. E dovremmo allenarci a riceverla quella sincerità, comunque essa sia, senza starci male e senza prendercela o giudicare. È dura lo so. Ma secondo me dovremmo.

Allora forse non è tanto una questione di educazione che mina il nostro benessere ma piuttosto una questione di falsità, simulazione, convenzionalismo…?

Evviva le emozioni oneste.

Prosit!

L’Amore dovrebbe studiare anche Geografia

Parlando con un amico, sono venuta a sapere che sua sorella si è lasciata con il proprio ragazzo ormai già da un po’ di tempo. Ha dovuto, a quanto ho capito, non poteva andare avanti quella storia ma, da quello che mi ha detto il fratello, questa ragazza continua a soffrire per la mancanza di quello che considerava un vero amore. Vedete, dovete sapere che questa giovane donna, che si chiama A., stava assieme ad un ragazzo buonissimo, generoso, sensibile, bello e allegro ma… ahimè, completamente irresponsabile e pure infantile. Fu così che, finchè la storia è stata basata solo su rose e fiori, tutto è andato ovviamente per il meglio ma, quando le cose, hanno iniziato a diventare serie, ecco emergere trionfanti le spine e i dolori! Sei anni di amore, di divertimento, di emozioni ma anche sei anni di rabbia, di preoccupazione e di fastidio. Eh già! E mica si può solo ridere e giocare nella vita! Bisogna lavorare sodo e costantemente e lui invece lavoricchiava solo, bisogna prendersi un impegno e mantenerlo e lui non lo faceva, bisogna avere delle regole e lui era l’anti-schema. Lui aveva sempre il sorriso sulle labbra, lei invece era sempre più cupa.

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I suoi genitori le facevano lunghe paternali a riguardo, i colleghi le mostravano come si dovrebbe comportare un vero uomo e le amiche le consigliavano assolutamente di cambiare quella situazione. Ma è ovvio! Se non lavori come fai a mangiare? Se c’è da andare a prendere il figlio a scuola come fai a dimenticartene? Se c’è da andare a pagare una bolletta come fai a farla scadere? – Non andava proprio bene Meg – mi disse il mio amico ossia, il fratello di A. Non so perchè ma, mentre lui mi parlava e mi raccontava di questo ragazzo un po’ Peter Pan, un po’ sulle nuvole, un po’ senza condizionamenti e obblighi, a me venne in mente il Madagascar.

PeterPan

Andai in questa splendida isola, in viaggio di nozze, anni fa. Io e marito, essendo un po’ misantropi se vogliamo e amanti della natura, cercammo un luogo il meno turistico possibile per vivere al meglio quella terra nella maniera più intima. Le sue usanze, la sua cultura, il suo popolo. Ebbi contatti giornalieri e stretti con i malgasci che, volendolo o non volendolo, mi dimostrarono come vivevano. Ebbene, sotto un certo aspetto, vivevano esattamente come l’ex fidanzato della sorella del mio amico! Mi viene quasi da ridere ma è proprio così! Il lavoro? Si certo, lavorano, ma in modo completamente diverso dal nostro. Il bambino a scuola? Torna da solo o insieme agli altri. Non ci sono pericoli. La bolletta? Cos’è una bolletta? Ecco, sorridendo immaginai A. e il suo amato, vivere in questa splendida terra africana che ha tanti lati negativi ma non inerenti al problema sentimentale di A. e la sua dolce metà. Dove la gente è povera ma gaia.

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Non dimentichiamoci che A. soffre per la perdita di questo amore nonostante i vari fallimenti per cercare di cambiarlo. Li vidi felici, sereni, sulle spiagge bianche, tra i lemuri e baciati dal sole splendente. Senza i soldi come protagonisti di una vita, senza preoccupazioni, senza impegni ne condizioni. Li vidi vestiti di un solo pareo, li vidi costruirsi la loro casa, li vidi guardare i loro figli giocare in mezzo alla strada. So già a cosa state pensando. Tutto questo è un’utopia. Me lo dico da me. Ma è vero o no che quei due in un luogo come il Madagascar avrebbero potuto vivere davvero felici e contenti? Tanti europei si sono trasferiti in quella terra, così come in altre del pianeta. Ok, non è possibile (quasi), ma tutto questo per dire come, a volte, il sistema in cui viviamo, può rovinare alcuni aspetti della nostra vita. In fondo, chi può dire che il modo che aveva di vivere l’ex fidanzato era sbagliato? Nessuno. Non era consono al nostro tipo di società, ma non sbagliato. A volte, giudichiamo persone che non fanno quello che facciamo noi senza capire che probabilmente sono i primi a soffrire sentendosi completamente stonati con il luogo in cui, per mille motivi, sono obbligati ad abitare. E questo non è giusto.

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A. ha fatto bene a mollarlo. Non poteva continuare in questo mondo questo tipo di relazione che le causava solo infelicità, lo so, ma questo articolo è nato semplicemente da delle elucubrazioni personali. Giuste o sbagliate che siano, ho fantasticato un po’ e poi ho scritto. Tutto qui. E voi? Conoscete storie simili finite male a causa del luogo geografico nel quale sono nate? Forse si, ma avete sempre pensato che sono finite per ben altri motivi come in effetti così appare. Penso sia anche divertente pensarci su. D’altronde, sono infinite le motivazioni che possono portare al termine di una storia d’amore e, a quanto pare, anche la Nazione.

Prosit!

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